Ragione strumentale ed eterogenesi dei fini nell'età della tecnica
Il mutamento semantico del termine Ragione e l'affermazione definitiva della mentalità tecnica e strumentale
«La ragione non è più l’ordine immutabile del cosmo in cui prima la mitologia, poi la filosofia e infine la scienza si erano riflesse creando le rispettive cosmo-logie, ma diventa procedura strumentale che garantisce il calcolo più economico tra i mezzi a disposizione e gli obbiettivi che si intendono raggiungere»1
La nozione di Ragione ha una storia evolutiva lunga forse quanto quella del pensiero filosofico occidentale. In filosofia essa ha assunto, nel tempo, una polisemia di significati mai sintetizzabili in una concettualizzazione univoca e definitiva. Il suo significato originario ed etimologico rimanda a quello della parola latina ratio, che dal linguaggio comune (dove significava calcolo o rapporto) venne presa da Cicerone per tradurre il logòs greco, che oltre ad indicare ragione, significava discorso. Ragione è anche oggi, nell'utilizzo comune, un termine ambiguo che può rivolgersi sia all'ambito discorsivo o argomentativo, sia a quello fattuale o causale. Anche oggi, nell'utilizzo comune del termine, è possibile affermare che un individuo abbia ragione, quando la sua tesi è preferibile a quella del suo interlocutore. Oppure che un fatto o una cosa abbia ragione di esistere, perché ha delle cause o delle finalità tali da renderne necessaria l'esistenza. Questi due differenti ambiti espressivi di Ragione, sono solo due delle infinte sfumature e accezioni che il termine ha assunto nella storia della filosofia e ciò dimostra la sua centralità e decisività teorica nel pensiero e nella cultura occidentale.
La ragione come discorso, metodo, tecnica argomentativa e la ragione come fondamento delle cose reali, se non della realtà intera, possono essere approssimativamente ritrovati in una “simbolica e orientativa" distinzione filosofica tra ragione soggettiva e ragione oggettiva:
da un lato ragione può infatti essere assimilata ad una tecnica formale o discorsiva. Cioè ad una funzione mentale che rende coerenti tra loro due o più proposizioni, senza che però tale coerenza logica garantisca la reale corrispondenza di quelle proposizioni ad un fatto "oggettivo" esterno;
dall'altro ragione può indicare l'ordine effettivo della realtà, la sua reale sostanza ontologica, che può essere rispecchiata o disvelata dal pensiero.
Ma la differenza tra queste due accezioni del termine ragione è probabilmente oggi una sottigliezza sofistica priva di rilevanti conseguenze pratiche, culturali e sociali: la proposizione che spiega la caduta di un corpo verso il basso con la forza di gravità su di esso esercitata, è già di per sè autosufficiente. E sterile risulterebbe la contrapposizione tra la concezione empirista del principio causale che sosterrebbe il valore puramente formale e convenzionale di tale spiegazione e quella ontologica, che al contrario ne opporrebbe il valore reale, sostanziale e soprattutto universale. Per Isaac Newton, che forse si colloca a metà tra queste due vie, era ancora un problema rilevante, stabilire un ideale di scienza puramente descrittiva, tesa cioè alla descrizione di leggi che regolino la natura, senza dover ricorrere ad ipotesi metafisiche o tali da non basarsi su fattori non traducibili in linguaggio matematico. E questa preoccupazione, che accomunava Newton ad altri scienziati o filosofi dell’epoca, era determinata soprattutto da ragioni storiche, sociali e culturali. L'epoca di Newton è ancora contrassegnata dalla confusione e dalla residuale mescolanza di principi e preoccupazioni filosofico-teologiche e spiegazioni laiche e quindi scientifiche della natura. Tale mescolanza pone ancora l'esigenza o il problema di individuare, una necessità universale, se non sostanziale nella connessione e nella relazione dei fenomeni osservati: «In un certo senso quella newtoniana di forza è nozione che sta al confine tra meccanicismo e teologia, perché tutto ciò che riguarda l'origine della forza e il suo rapporto con la Natura appartiene alla teologia, mentre tutto ciò che riguarda i movimenti che conseguono in Natura alla forza quali suoi effetti appartiene al linguaggio matematico.»2
Ma ha ancora senso oggi l'esigenza, tipica dell’età moderna, di individuare un sostrato sostanziale e una uniformità e universalità nel mondo dei fenomeni naturali? Stabilire se vi sia una ragione soggettiva o una ragione oggettiva che spieghi la realtà nella sua totalità? Chiedersi se ci sia un sostrato o una sostanza permanente che assicuri una certa oggettività al discorso scientifico? Probabilmente no. O almeno queste domande non hanno più la stessa decisività e rilevanza filosofica, culturale e sociale che avevano nell'età moderna: agli occhi dell'uomo tecnico contemporaneo ciò che realmente interessa, nell'osservazione e nella conoscenza della natura, è la pura necessità di dominare la realtà, di prevederla, di sfruttarla e manipolarla a fini meramente pratici e utilitaristici: «La verità non è più conformità all’ordine del cosmo o di Dio, perché, se non si dà più orizzonte capace di garantire il quadro eterno dell’ordine immutabile, se l’ordine del mondo non dimora più nel suo essere, ma dipende dal “fare tecnico”, l’efficacia diventa esplicitamente l’unico criterio di verità.»3
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Questa graduale scomparsa delle preoccupazioni di ordine teorico, metafisico, teologico, nel discorso e nella ricerca scientifica, in favore degli intenti e degli scopi della ragione tecnico-strumentale, corrisponde, dal punto di vista storico-filosofico, alla sconfitta lenta, progressiva ed inesorabile delle due accezioni di Ragione, cui si accennava prima.
La funzione storico-sociale della ragione oggettiva si esaurisce non appena crollano definitivamente l’ancien règime, le sue residuali vestigia feudali e con esse il fondamento religioso-metafisico del mondo. Con la seconda rivoluzione copernicana, attuata da Kant, la ragione non è più in grado di determinare e cogliere la sostanza metafisica della realtà, la cosa in sè, ma può al massimo conoscere scientificamente le sue manifestazioni fenomeniche stabilendone i nessi causali: «La gnoseologia critica è a tutti gli effetti la metafisica di legittimazione della borghesia capitalistica. [...]. Antonio Gramsci non ha tutti i torti a rilevare che esistono intellettuali più "organici" di altri alla costruzione di una solida immagine del mondo. Nessuno ha direttamente "commissionato" a Kant la gnoseologia critica.»4 Tuttavia: « il criticismo di Kant permetteva alla classe borghese di chiarire in primo luogo a se stessa che la propria "scienza", intesa come autoconsapevolezza del proprio ruolo "noumenico" nel mondo dei "fenomeni", non dipendeva più da un fattore esterno, la metafisica religiosa ed i suoi apparati sacerdotali, ma si fondava su se stessa, e cioè sulla propria immanente autoriflessione intellettuale.»5 Questo contesto, di progressiva laicizzazione della società e della politica, caratterizzato dalla parallela razionalizzazione delle forme di governo e di amministrazione degli stati occidentali settecenteschi, può dunque realizzarsi ed esplicarsi solo con l'abolizione dei privilegi, dei particolarismi feudali e con il superamento dei costumi tradizionali. Più in generale: «La seconda metà del Settecento fa dunque emergere un contesto culturale in cui non soltanto la metafisica, ma la filosofia stessa e tutte le scienze appaiono difficilmente pensabili come oggettivamente fondate sulla natura reale delle cose.»6 Vi è qui forse un parallelismo tra contesto storico-sociale e cultura filosofico-scientifica: così come gli Stati, le società, gli stessi sistemi economici occidentali, tendono sempre più, a partire dal Settecento, a sganciarsi da qualsiasi principio o vincolo metafisico, teologico, religioso, allo stesso modo la ricerca teorica, la riflessione filosofica e l’indagine scientifica perdono gradualmente qualsiasi fondamento oggettivo e sono via via portati ad auto-fondarsi, a trovare unicamente nella ragione stessa i propri criteri di verità, finanche, talvolta, a non riuscirci o a rinunciare del tutto a questo tentativo.
La stessa ragione soggettiva kantiana, pur non abbandonando del tutto le istanze metafisiche delle precedenti filosofie, è condotta a smascherarne definitivamente le illusioni circa l'esistenza di una sostanza o fondamento oggettivo del reale. Essa, anche per questo motivo, può essere assimilata o assorbita, al di là dei suoi nobili intenti, in una conoscenza di ordine utilitario, del tipo dell’uomo e della società tecnica. Kant è consapevole dell’impossibilità, per lui, di pervenire ad una effettiva e globale comprensione della realtà. Il ‘noumeno’ e la ‘cosa in sè’ sono sostanze depotenziate, de-oggettivate e considerati inconoscibili scientificamente. Essi possono essere colti dell’uomo, secondo Kant, solo sul piano pratico della moralità e dei fini morali; questa "metafisica morale" rimane pur sempre priva di fondamenti oggettivi, teorici e veritativi. In ultima analisi, il criticismo kantiano si rivela incapace a dirimere "scientificamente” le questioni riguardanti lo spirito e la sfera umana: «Chi può dire che uno qualsiasi di questi ideali sia più vicino alla verità del suo opposto? L’affermazione che la giustizia e la libertà siano di per sé migliori dell’ingiustizia e dell’oppressione è scientificamente indimostrabile e inutile; e all’orecchio nostro suona ormai tanto priva di significato quanto potrebbe esserlo l’affermazione che il rosso è più bello dell’azzurro o le uova migliori del latte.»7
La capitolazione definitiva della ragione soggettiva kantiana e delle sue timide pretese assolutizzanti, già velatamente sconfessate dallo stesso Kant, trova forse la sua manifestazione più esplicita nella filosofia schopenhaueriana. Quando Schopenhauer, ne il Mondo come Volontà e Rappresentazione, individua nella cieca ed irrazionale volontà di vivere la vera essenza metafisica del mondo, considerando l'ambito naturale dei fenomeni, oggetto della comprensione scientifica, come semplice manifestazione finita e fenomenica della volontà, egli non fa che ripudiare la conoscenza razionale o discorsiva kantiana in quanto asservimento utilitario alla volontà stessa. La filosofia di Schopenhauer è, in quest'ottica, straordinariamente profetica; perché smaschera e relativizza anzitempo il significato di ragione che monopolizza l'orizzonte culturale e sociale contemporaneo. Nell'odierna età della tecnica planetaria, la conoscenza razionale non è mai pura contemplazione disinteressata della natura, ma corrisponde ad una precisa forma di dominio scientifico sul mondo. La tecnica, prima ancora che un apparato tecnologico, è una mentalità capillarmente diffusa, che consiste in una peculiare forma di interazione umana con il mondo: «Si è soliti definire strumentale quel tipo di razionalità il cui orizzonte è circoscritto al calcolo più economico tra i mezzi a disposizione e i fini che ci si propone di raggiungere. La sua misura è il massimo dell'efficienza, a sua volta espressa dal miglior rapporto tra i costi impiegati e i risultati raggiunti».8
La ragione strumentale, braccio destro dell'operare tecnico e della società della tecnica, si afferma come monopolio ideologico, filosofico e culturale del mondo occidentale soltanto quando ne maturano le condizioni storico-materiali necessarie: nella Scienza della Logica Hegel sostiene con straordinaria lucidità che l'aumento quantitativo di un fenomeno, presuppone ad un certo momento un cambiamento qualitativo complessivo del paesaggio: un uomo che perde una quantità limitata di capelli, mantiene qualitativamente pressoché inalterato l'aspetto del suo volto. Ma allorché la quantità di capelli persi raggiunge un livello cospicuo, l'uomo diverrà calvo, il suo aspetto cambierà cioè qualitativamente. Quando il progresso tecnologico, diventa l'anima e il motore dello sviluppo economico capitalistico, quando il legame tra lo sviluppo tecnico e la marxiana valorizzazione economica del capitale diventa sinergico e simbiotico, la tecnica si trasforma da semplice mezzo di sopravvivenza e di difesa dell'uomo nei confronti della natura a fine autoreferenziale e auto-fondato: «Quando l'economia, nella sua versione capitalistica, è divenuta, almeno in Occidente, forma della storia, si è assistito ad una trasformazione antropologica che ha travolto il tipo umano delle forme pre-capitalistiche, cresciuto in limiti nazionali, religiosi, politici, parentali, e da questi connotati, per sostituirlo con un tipo umano che che è in grado di percepire se stesso solo come rappresentate di forze produttive [...]. Man mano che le condizioni di produzione diventano sempre più tecniche si riduce lo spazio di arbitrarietà del mercato, e la libertà ancora concessa all'arbitrio si annulla nel vincolo dei condizionamenti tecnici, che come potenze autonome, regolano la vita degli uomini, nelle cui azioni è possibile leggere solo il rispecchiamento passivo della scena tecnica. A questo punto l'identità dell'individuo si risolve interamente nella sua funzionalità all'apparato tecnico.»9
E la ragione strumentale, in quanto espressione massima della razionalità, della funzionalità e dell'efficienza tecnica, sottratta a qualsiasi forma di debolezza, fragilità o emotività umana, diventa il fondamento della dimensione individuale e collettiva della vita umana: «Supponiamo che questa convinzione informi fin nei particolari la vostra vita quotidiana – il che è vero, assai più di quanto si figuri ognuno di noi. sempre minore il numero delle cose che si fanno senza un secondo fine. Una gita fuori città, fino alle rive di un fiume o alla cima di un monte, sarebbe irrazionale e stupida, giudicata da un punto di vista utilitario: un passatempo sciocco e dispersivo. Per la ragione formalizzata, un’attività è ragionevole solo quando serve a un altro fine, per esempio quello della salute o del riposo, e quindi a migliorare l’efficienza e la capacità di lavoro di colui che vi si dedica. In altre parole l’attività è solo uno strumento, in quanto trae il proprio significato dal rapporto con altri fini.»10
Ogni azione umana può essere massimizzata, ricondotta a fini particolari, da dover raggiungere con la massima efficienza possibile e con l'impiego minimo di risorse fisiche e spirituali. La ragione tecnica o strumentale rappresenta così la realizzazione massima del cattivo infinito hegeliano: cioè la giustapposizione in una serie infinita di scopi o momenti finiti. Ma se il finito, così concepito, è per definizione ciò che non basta a sè stesso, ciò che trapassa in altro e ha bisogno d’altro per esistere e per essere definito, la ragione strumentale, come modus operandi cui conformare ogni azione o pensiero umano, è portata filosoficamente ad auto-dissolversi. Si delinea così l'essenza intimamente nichilista dell'esistenza "tecnicamente fondata": la perversa sostituzione e inversione dei mezzi con i fini, tale per cui il nulla, nichilisticamente inteso, il vuoto e l'assenza di senso, assurgono ad essere, in modo più o meno paradossale, l'unico vero principio ed orizzonte di riferimento del nostro tempo.
Umberto Galimberti, Psiche e techne, ed. Feltrinelli, pp.38
M. Bontempelli-F. Bentivoglio, Il senso dell’essere nelle culture occidentali, ed. Trevisini, pp.150
Umberto Galimberti, Psiche e techne, ed. Feltrinelli, pp.38
Costanzo Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia, ed. Petite Plaisance, pp. 222
Costanzo Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia, ed. Petite Plaisance, pp. 222
M. Bontempelli-F. Bentivoglio, Il senso dell’essere nelle culture occidentali, ed. Trevisini, pp. 258
Max Horkheimer, Eclisse della Ragione, ed. Einaudi, pp. 27
Umberto Galimberti, Psiche e techne, ed. Feltrinelli, pp. 370
Umberto Galimberti, Psiche e techne, e. Feltrinelli, pp. 556-557
Max Horkheimer, Eclisse della ragione, ed. Einaudi, pp. 38